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Raffaello raccontato da Vittorio Sgarbi

Raffaello raccontato da Vittorio Sgarbi
di Alessandra Bernocco

La Bellezza non può essere interrogata: regna per diritto divino.
Oscar Wilde

Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall’abisso, Bellezza?
Charles Baudelaire

Quando lavoro a un problema non penso mai alla bellezza. Penso solo a come risolvere il problema. Ma quando ho finito, se la soluzione non è bella, so che è errata.
Buckminster Fuller
(09 novembre 2019) E’ del 16 ottobre la sentenza del Tar che ha restituito al sovrintendente Giulio Manieri Elia e al ministro dei beni culturali Dario Franceschini la completa responsabilità di negoziare con il Louvre i prestiti reciproci di Leonardo e di Raffaello.
In particolare l’Uomo vitruviano di Leonardo, dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia al Louvre, e il ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con un amico di Raffaello, dal Louvre all’Italia, in vista delle due mostre per i cinquecento anni dalla morte, a Roma alle Scuderie del Quirinale, dal 5 marzo al 14 giugno, in collaborazione con gli Uffizi, e a Urbino a Palazzo Ducale (in corso fino al 19 gennaio, Raffaello e gli amici di Urbino).
Vittorio Sgarbi approva. Dei retroscena tipicamente italiani, dovuti alle riserve di Italia Nostra che non avrebbe voluto cedere l’Uomo vitruviano perché il Louvre non aveva ceduto la Gioconda, aveva accennato durante la serata dedicata a Raffaello, in realtà presentata come il suo nuovo spettacolo, arrivato il 9 ottobre al teatro Olimpico di Roma, dopo il debutto al teatro Romano di Verona e un passaggio al Festival La Versiliana.






“Rispetto a Raffaello, Leonardo è un incapace. Ma oggi non sarò qui a raccontare i limiti di un genio”.



Questo, più o meno, era stato l’esordio di quello che, appunto, va trattato come un vero e proprio spettacolo.



A cominciare dalla drammaturgia, che c’è ed è ferrea nonostante sembri restituita a braccio, quasi inventata lì per lì. C’è  una scena che si vale di proiezioni su uno schermo grande quasi quanto il fondale, e c’è un interprete che ben conosciamo, un mattatore che, piaccia o meno, ha tenuto banco  per tre ore filate. Da solo.



Nessun cedimento da parte sua, nessun segnale di noia nel pubblico. Un po’ provato, forse, ma certamente contento.



Non proprio rifocillato dalle pause, brevissime, affidate al violino di Valentino Corvino, che ha suonato dal vivo musiche autografe. Schegge di suoni e nemmeno il tempo di lasciare la sala.



Per Sgarbi si trattava probabilmente di pause forzate, funzionali a distinguere le fasi del percorso biografico di Raffaello e della sua evoluzione artistica incominciata a Urbino sotto la guida di un padre pittore negato per la pittura.



Una specie di capra, così per capirci, ma con l’innegabile merito di avere trasmesso al figlio il magnifico virus, allevandolo a “latte e pittura”. Virus che avrebbe coltivato ostinatamente e senza tregua, in dialogo con pittori a lui contemporanei come Leonardo, Pinturicchio e soprattutto Perugino, che gli fu maestro quando migrò da Urbino a Perugia, ma non solo. Attraverso Perugino, per esempio, arriva a Raffaello anche Piero della Francesca, la cui Pala Montefeltro, che rappresenta la Sacra conversazione, è, dice Sgarbi, il punto di partenza di tutta l’opera di Raffaello. L’archetipo di un’idea nuova di spazio, che qui è unitario, privo di scomparti laterali e sviluppato verticalmente. Al centro la Madonna e, sulle ginocchia, isolato, il bambino dormiente, la cui posizione, quasi citazione della Pietà, è antefatto del suo destino di morte.



La fitta rete di relazioni, contaminazioni, rinvii, intrecci e suggestioni  che sta dietro l’opera di questo artista vissuto solo trentasette anni, viene in luce un po’ alla volta con sempre maggiore chiarezza: attraverso le immagini delle opere o di sezioni di esse; attraverso il confronto in simultanea tra le sue opere e quelle di altri; attraverso la disamina di uno stesso soggetto affrontato da autori e scuole diverse, in epoche successive e secondo poetiche e stilemi differenti. Raccontate più che descritte, le opere vengono contestualizzate e accompagnate  nel loro percorso, dalla gestazione alla compiutezza.



E viene voglia di ricordarle tutte, di tutte indicare un dettaglio, una curiosità, una ragione per cui varrà la pena non perdere le mostre di dovere o di recarsi direttamente là dove sono esposte e conservate.



La Pala di Tolentino, che già rivela la capacità di un Raffaello diciottenne di dipingere l’interiorità, gli stati d’animo; la Pala Colonna, contemporanea all’Adorazione dei Magi di Perugino, in cui la morbidezza della carne umana anticipa quella delle Tre grazie, in cui Raffaello era probabilmente partito dalla scultura classica.



Tra le grandi opere della giovinezza Il sogno del cavaliere, “perfetta ma ancora un po’ rigida”, che  si offre al confronto tra Raffaello e Tiziano, pittore della mente uno, più distaccato e freddo, della carne l’altro, sensuale di una sensibilità volta all’emozione; e Lo Sposalizio della Vergine, il primo capolavoro pubblico per Città di Castello,  la cui fonte è di nuovo Perugino con la Consegna delle chiavi a San Pietro e lo stesso Sposalizio affrescato ai lati della Sistina. “Perugino-spiega Sgarbi- predispone una spazialità che Raffaello porterà alle estreme conseguenze”. Da notare inoltre, nel dipinto di Raffaello, la presenza di una figura nuova, il pretendente mancato, sorpreso in un moto di stizza mentre spezza un bastone con il ginocchio.



Sono sottolineature puntuali che forniscono a chi ascolta una chiave di accesso che permette di riconoscere un segno, distinguere uno stile e collocare una scuola nel panorama dell’Italia del Rinascimento, sostanzialmente polarizzata tra Roma e Venezia.



Non si racconta solo di Raffaello ma dei rapporti che intercorrono tra i grandi del Rinascimento, rapporti anche misteriosi, non testimoniati dalla biografia e dalla storia eppure chiari attraverso le opere. Com’è possibile,  per esempio,  che Giovanni Bellini conosca Michelangelo se non è mai andato a Roma? Eppure la sua Pietà accoglie Michelangelo nell’assenza di dolore, ma lo attraversa senza rinunciare al tempo. “Di Michelangelo, Bellini non accetta l’idealizzazione e la sua Madonna non ha il volto di diciottenne ma è velata dal tempo”.



E la michelangiolesca Pietà, nella figura del Cristo, è anche la fonte da cui Raffaello deriva la pesantezza del corpo morto, con quel braccio cadente che muovendo dalla scultura di Michelangelo arriva alla deposizione della Pala Baglioni.



Ma il testimone passa anche attraverso il rapporto del soggetto e lo sfondo scuro su cui si staglia. Allora, di nuovo, è Leonardo con  la Dama con l’Ermellino a ispirare Raffaello nella sua prima grande Madonna,  la Madonna del Granduca, dipinta su fondo nero. E il soggetto sacro dipinto su fondo scuro diventerà archetipo per i dipinti sacri successivi, ripreso da Murillo, centocinquant’anni dopo.



Ma è guardando alla Gioconda che Raffaello intuisce che in essa c’è grande parte di quel che stava cercando. La figura leonardesca, con quella “faccia da francese che esprime il compiacimento di sé, rappresenta l’astrazione da cui derivano due realtà di Raffaello: la Dama del Liocorno, a cui attribuisce un surplus di vita rispetto a Leonardo, e la Muta, che diventa un volto vero, una figura reale”.



E se è vero che “in Raffaello c’è tutto quel che vogliamo cercare” –dirà Sgarbi prima di ‘accompagnarci’ attraverso le stanze vaticane, è vero altrettanto che è assai “noioso nella sua perfezione”. Una provocazione che chiarisce situandolo tra Pietro di Cosimo, suo contemporaneo, e il Sassoferrato, posteriore di centocinquant’anni. Del primo, ”eccentrico e sottovalutato”, indica la Madonna con il bambino che sembra “un po’ ubriaco” e mostra quanto sia noiosamente normativo Raffaello; il secondo invece, “intontito da Raffaello”, parrebbe scontarne la ridondante perfezione.





Del periodo romano è La disputa del sacramento, affresco per la stanza della Segnatura, la cui grandezza sta nel sovrapporre il mondo di Dio e il mondo dell’uomo, in una sorta di teorema tra cielo e terra - al centro l’ostia – in cui appaiono Dante, Omero e Virgilio che accompagnano gli uomini attraverso il mondo terreno verso qualcosa di superiore.



Nella stessa stanza, la Scuola di Atene, che è “il più bel dipinto del mondo”.



Il che, a rigore, dovrebbe significare che il più bel dipinto del mondo è opera di un pittore ‘noioso’. In verità l’uso entusiastico del superlativo assoluto è ricorrente nelle lezioni di Sgarbi. E in certo modo è quel che pone le sue lezioni in quota spettacolo.



C’è un qui e ora in cui l’assoluto assume un peso specifico e proprio in quanto specifico può essere assoluto. E poco importa se non è assoluto in modo assoluto: nel qui e ora della coscienza estetica è più assoluto che mai. E’ il più. Che si tratti di un pittore, di un luogo, di un dipinto. Quando il centro di gravità sarà un altro dipinto, allora probabilmente sarà quello il più bel dipinto del mondo.



Ma ora è la Scuola di Atene, ‘apoteosi dell’occidente’, ‘tempio della conoscenza’ che schiera insieme Socrate, Platone (raffigurato con il volto di Leonardo), Aristotele,  Alessandro, Michelangelo, Tolomeo in un’ideale fusione di mondo antico e moderno, per mostrare che la filosofia greca è antefatto del grande pensiero cristiano.



Restando tra le Stanze Vaticane due suggerimenti chiamano in causa Piero della Francesca e Lorenzo Lotto. Il primo, a proposito della Liberazione di San Pietro dal carcere, realizzato su un precedente affresco di Piero della Francesca, che rivela nel gioco di luci e di ombre la discendenza dal Piero del Sogno di Costantino e mostra che Raffaello ritorna con la mente al suo maestro proprio mentre lo sta distruggendo.    Del secondo- un pittore ‘difficile’, che viene da Venezia ma è stato a Roma e conosce Raffaello-  si ipotizza che abbia lavorato nelle Stanze Vaticane come suo aiuto. E il suo capolavoro, L’uomo con la lucerna, induce a credere che Lotto abbia aiutato Raffaello soprattutto nei ritratti, aggiungendo verità.



Dello stesso periodo della Scuola di Atene è il Ritratto del cardinale Alessandro Farnese, ora a Capodimonte, in cui Raffaello, nel volto di questo uomo brutto “dipinto con armonia”, nella cui mente sembra nascondersi chissà quale insidia, “introduce il sospetto che anche oggi abbiamo nei confronti del Vaticano”.



Tra le meno celebri Madonne passate in rassegna, la Madonna di Foligno, prima Pala d’altare dipinta da Raffaello, che diventerà un archetipo per Carlo Maratta, “il più grande pittore del secondo seicento, che sviluppa il tema del bello ideale”; la Madonna dell’Impannata, la cui componente di idealizzazione si ritroverà nel seicento di Guido Reni; la Madonna della Seggiola, una madonna “perfetta, da cui deriverà molta pittura dell’ottocento”; la Madonna della Rosa che “aprirà la strada alla pittura concettuale del Parmigianino”.



Ritorna sempre, in queste tre ore di lezione spettacolo, il carattere normativo di Raffaello per molta pittura successiva.



E scorrono nomi e dipinti, celebri e meno, a lui variamente debitori, fino a Savoldo, la cui Trasfigurazione deriva da quella di Raffaello, “opera estrema”, oggi in Vaticano e a Giulio Romano di Palazzo Te, il suo allievo più ortodosso.



E a seguire Moretto da Brescia; Dosso Dossi, “un Raffaello arricchito di sensualità”; Sebastiano del Piombo con una Pietà conservata al Museo Civico di Viterbo; Polidoro da Caravaggio, che si rifà allo Spasimo di Sicilia, un olio su tavola dalle rocambolesche vicissitudini, ora al Prado, in cui Raffaello “dipinse  il Cristo portacroce con impulso e tensione drammatica”; Andrea da Salerno con la Deposizione della Croce con le scale a pioli, dipinta l’anno stesso della morte di Raffaello; l’Ortolano, il cui San Sebastiano tra San Rocco e San Demetrio, ripensa quest’ultimo sul modello del San Paolo nella Santa Cecilia.



E dunque, L’estasi di Santa Cecilia. Un’allegoria della musica celeste in cui la Santa è dipinta con gli strumenti musicali fermi come una natura morta, perché  la musica che conta è solo quella celeste. Un dipinto potente, che fa sentire quello che c’è oltre i sensi, da cui deriva Amor omnia vincit di Caravaggio, in cui l’amorino ha accanto strumenti che non suonano.  



Ma lo stesso Tiziano “ha un sussulto raffaellesco” nell’Assunta, olio su tavola conservato a Santa Maria dei Frari, a Venezia, e nei ritratti come L’uomo dal guanto e Ritratto di Ariosto.



Arrivano dal Ritratto di Baldassar Castiglione, il “capolavoro” di Raffaello conservato al Louvre, come l’Autoritratto con maestro di scherma. I due capolavori che Sgarbi auspica vengano ceduti all’Italia in vista delle due  mostre dedicate.



Infine, da queste pagine tutt’altro che esaustive, La velata, olio su tela che ritrae la donna per cui Raffaello perse la testa e che qui con un divertito processo di morphing diventa una carnale Monica Bellucci.



E’ la stessa donna raffigurata nel Ritratto di giovane donna  e nella Fornarina, a cui si ispirerà De Chirico per Donna col turbante. E sono gli ultimi due ritratti femminili prima di morire. La donna che sempre voleva vicina.  



 



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09 novembre 2019
Articolo di
nostoi
Rubrica:
Arte


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