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Morir si’ giovane e in andropausa

Morir si’ giovane e in andropausa
di Chiara Merlo

Non si è mai abbastanza coraggiosi
da diventare vigliacchi definitivamente

Giorgio Gaber
(27 gennaio 2014) È un esperimento davvero riuscito di Teatro Canzone, dove l’ironia frizzante, vivace, delle canzoni (assai originali sul fronte più strettamente musicale, ma il cui contenuto narrativo risulta particolarmente intuitivo, impetuoso e tagliente) non stigmatizza scettica soltanto quell’indole calabrese, temperamento impavido che posticipa ogni rivolta (pur acclamandola), ma ci racconta invece, e senza aggiungere dell’altro peso, quell’intera generazione per com’è (cioè definitivamente sconfitta) di tutti quei letargici quarantenni italiani (oramai cinquantenni, verso i sessanta).

Ciò lungo tutto quel percorso allegorico di disfatte politiche e culturali, annientamenti sociali e distruzioni linguistiche di massa che ci hanno consegnato, decennio dopo decennio, ad un sistemico fallimento duraturo, ma non solo perché sperato dai padri e dagli stessi voluto, per un’idea di imperio che fosse di loro esclusiva per una sorta di capacità eterna (com’è spiegato anche per altre epoche dalla migliore tradizione classica e teatrale), invece invocato per paura da noi stessi, oggi quarantenni ripiegati, attori insipidi della vita, neanche amletici eroi tragici (dove il dubbio sarebbe già stato un cambiamento), e ciò oltre ogni risalita possibile verso il contemporaneo, invece indietro nel tempo, nel medioevo.


Un fallimento attualmente così caparbio e ripetitivo, meticolosamente e strutturalmente pensato e realizzato contro ogni nostra speranza e desiderio di cambiamento, ché, se nemmeno la rivoluzione collettiva è più in grado di sormontare, figuriamoci la semplice protesta. Allo stesso modo, e per le stesse cause/finalità ogni rivoluzione, ogni protesta, viene manipolata e strumentalizzata. Perché solo a parole ci cimentiamo, senza mai destinarci completamente, mai con la volontà vera di una frattura sociale certa, seppure insanabile, quand’anche a costo della nostra stessa vita o esistenza soggettivistica, in qualche modo già abbondantemente e tristemente trascorsa. “A me i compagni m’hanno tradito”, e sotto suona struggente una insolita “Bella ciao”.



Eppure il pessimismo dello spettacolo non è così bieco come qui nel commento. Lì c’è la musica, e poi l’ironia di cui abbiamo detto, che certo serve a smorzare ogni inquietudine e abbattimento. Qui il convincimento è assoluto del marcio stabile.



È una produzione di “Scena Verticale”, ed è il risultato del lavoro di due coautori: Dario De Luca (protagonista in rilievo sulla scena fra i monologhi, le alterazioni linguistiche e la gestualità simbolica, accompagnato per la musica, e anche per la capacità espressiva, dagli ottimi musicisti/attori della Omissis Mini Órchestra) e Giuseppe Vincenzi, il compositore dalle sfumature antropologiche. Ciò che ci resta alla fine dello spettacolo è una risata statica, come congelata, con l’amarezza impressa di ciò che è successo, e su cui abbiamo abbandonato evidentemente ogni slancio emotivo (reazionario).



Questo pezzo di teatro, molto divertente, ma allo stesso tempo di sostanza, impegnato, ci fa soprattutto ridere, e sorridere, di noi stessi, e di tutti, seppure non ci perdona l’ignavia, né l’indolenza, quelle reazioni psichiche ridotte, specie all’inganno e alla sopraffazione, che ci hanno portato perciò a subire continuamente, e a fare dell’abuso, subito e imposto, ormai la regola condivisa. La regola del più forte e del più ignorante. Consapevoli che sono proprio i furbi i più violenti. E poi ci sprona a non sottovalutare le situazioni di comodo, quelle nostre ingenuità ingiustificabili, che poi sono il motivo di ogni personale, incredula disillusione finale.



E siccome la soggezione raggiunta è tale per cui ci siamo giocati ogni dignità, e anche l’amor proprio, dircelo senza musica forse poteva “suonarci” troppo pesante, terribile, inaccettabile, allora meglio accompagnare ogni disfatta con l’immaginazione eretica, l’incantamento della musica, quindi con dei caustici ritornelli, magari articolando un po’ con l’armonica e un po’ con il trombone il senso forte e profondo di quelle parole usate, che sì, forse dietro la burla, ci sembreranno anche accusatorie e infamanti, ma di certo mai potremo rifiutarle, in questo modo, come poco realistiche o non veritiere.



I generi musicali usati sono fortemente indicativi degli stati d’animo rappresentati, così in particolare il jazz e il blues, ma anche la musica francese (che ci sembra un po’ come una presa in giro fatta con quella delicatezza radical chic dei perbenisti), dai ritmi a volte concettuali, a volte allarmanti. Ma è tutto un gioco di attrazioni sonore, movimenti ritmici, suggestioni delle percussioni. È la canzone che ci convince con le sue assonanze/dissonanze di essere nei tempi giusti per provare di nuovo a fare qualcosa di nuovo. Gli umori sono raccolti, la forza forse per un momento l’abbiamo ritrovata, allora insistere e lottare, e non soltanto ridere di noi stessi, che pure ci aiuta ad andare avanti.



É per i propri sogni (e anche per il teatro), finanche ci si trovasse a vivere nelle periferie del mondo, perciò più scoraggiati (ma non solo in Calabria, per esempio a fare temerariamente l’attore, in tutto il resto dell’Italia stessa!). Il tempo passa ma non è mai troppo tardi se non pensiamo di rinunciare. Sarà retorico, ma è oltre il cinismo che pure retorico è. La musica così diretta ed essenziale sarà bastata a darci la carica? Fosse stato anche solo per un accordo è risultata davvero più che convincente.



Suggestiva, prepotente e sagace l’interpretazione di Dario De Luca, forse gli si può rimproverare qualche luogo comune, sia come autore che come regista. Tuttavia se viene preso con quella stessa ironia che caratterizza tutto il testo, potrà sembrarci anche propriamente voluto, così inserito in un contesto necessariamente parossistico.



Bravissimi i musicisti, davvero tutti molto coinvolgenti: Paolo Chiaia (piano synth e armonica), Gianfranco De Franco (clarinetto, sax, flauti e loop), Giuseppe Oliveto (trombone, flicorno, fisarmonica e conchiglie), Emanuele Gallo (basso), Francesco Montebello (batteria e percussioni). Particolarmente elegante e raffinato Gianfranco De Franco.



Visto il 19 gennaio al Teatro Tordinona di Roma


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