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Crave. Bisogno d'Amore

Crave. Bisogno d'Amore
di Chiara Merlo

Io scrivo la verità e lei mi uccide.
In fuga.
Nessun posto dove nascondersi.
Odio queste parole
che mi tengono in vita.
Odio queste parole
che non mi lasciano morire.
Che raccontano il mio dolore
senza alleviarlo.

Sarah Kane, Febbre
(02 dicembre 2016) Crave, “la febbre” di Sarah Kane, portato in scena dalla regia di Pierpaolo Sepe, quel dolore di vivere nella scrittura dura, provocatoria, aggressiva della drammaturga inglese morta suicida nel 1999 a soli 28 anni.

Due uomini e due donne. Il resto è ambiguo. La scena si apre con davanti le sbarre e quelle quattro persone in fondo messe di spalle.
Mi attirano le persone messe di spalle, catturano, specie in un quadro o in una scena come questa, e così ogni mia percezione. Visiva e uditiva in particolare. Se ne vanno fino alla fine del palcoscenico, o sono con la faccia al muro, oppure abbassano il volto e tu non lo vedi, ma immagini che abbiano il vuoto d'avanti, e le intuisci con le teste chinate. O che forse piangono e non vogliono farsi sorprendere da te. Ne riesco a immaginare tutto il dolore. Di più che se le guardassi in faccia. A guardarle negli occhi ne perderei quel loro senso pieno di smarrimento. Perciò, anche quando si voltano, sono immerse nel loro buio e coperte negli occhi.


Se guardi negli occhi in un volto, in qualche modo lo aggrappi alla tua vita, anche solo per un passaggio di luce riflessa fra le ciglia, e te ne conforti. Degli occhi tristi degli altri ognuno se ne conforta. Un corpo di spalle invece, senza un volto, è di più di un abisso. È un buco nero di cui non sai nulla. Sono arrivata a questa conclusione: le persone di spalle decisamente soffrono di più. Non piegate o buttate per terra, sono di spalle e in piedi, con quella loro dignità e insolenza a non farsi osservare. Sono più sole, e non ti cercano, non si mettono a guardare dove sei. Ti danno le spalle, puoi far quel che vuoi. E se si voltano, allora cadono, strisciano, sono diventate inutili ai tuoi piedi. Insignificanti. E tristi.



Anch'io quando prendo la metro mi metto alla porta con le spalle date a tutti, quasi con la testa sul vetro (e mi odiano quando poi devono scendere e mi devono spingere e spostare a forza come fossi un fantoccio). Ma io mi ci rimetto insolente in quella posizione, per non dovere guardare gli occhi di nessuno, le azioni di nessuno, e la bocca sguaiata e invadente di nessuno, pronta a fuggire senza poter fuggire, nel rumore del treno che riparte sottoterra e delle persone che si risistemano confuse e ansiose dietro di me. Così nella vita. Io odio la gente tutta insieme che mi sta addosso, comincio a sudare anche di inverno se guardo tutte quelle facce come se fossero un'unica faccia gigante verso di me.



Ecco il freddo. Questa scena mi ha dato subito la sensazione del freddo. Del freddo e di cose sporche. I pavimenti sporchi dei cessi. Angoli schifosi di una casa abusata dalla presenza prolungata di persone come in un sequestro, dei loro liquidi biologici sparsi.



- Cosa vuoi?



- Morire



- Se potessi liberarmi di te senza doverti perdere



- Non sempre si può



Questi animali chiusi in gabbia che siamo sbattono le teste dovunque e urlano, in questa stanza/gabbia dove hanno allestito la loro esistenza, dove hanno pensato di violentarla ogni giorno allo scuro di tutto e di tutti per sfinirla, senza che gli altri se ne accorgano. Si mettono di spalle. Piangere non basta, anzi non viene più. Voci striscianti si muovono dentro di noi come gli insetti di quella casa sporca, con pareti sudice e annerite dalla notte, fino a quando non scappano lungo gli angoli della stanza e sotto le sedie con le loro zampette impaurite dai rumori brutti che vengono da fuori.



I rumori. I rumori sono abusanti. Distruggono. Spezzano. Incolpano. Eppure mettersi a sbattere insistentemente contro quella gabbia, rompendosi le mani e la faccia a furia di prendere la rincorsa per cercare di sormontarla e fuggire non interrompe la vita di nessuno. Ci sono persone che urlano in continuazione e noi non le sentiamo, usano più voci per urlare e noi non le sentiamo.



Noi siamo come degli insetti nella vita degli altri, o alberi con tutte le foglie cadute nel bagno di casa (nudi).



Di spalle due uomini e due donne tentano movimenti sessuali. Nevrotizzati dalle esigenze di immaginazione degli spettatori. Strisciano con i genitali a terra, si strofinano contro le pareti e anche l'un l'altro, cadono capovolti, tentano più volte di rialzarsi, si aprono con le mani e con le braccia e a forma di ragno tentano di camminare nuovamente verso i confini. Risalire il vuoto con le bocche ansimanti verso il soffitto.



Quando ho letto questo lavoro di Sarah Kane, mi sono così immedesimata che ancora oggi faccio fatica a riaprire quel testo senza sentire lo sgomento di non poter evitare che ogni donna si senta schiacciata anche solo dalla presenza di un uomo, rinchiusa per sempre in quel cassetto dove ha messo l'amore. Proietto quel dolore ogni volta. Ha messo una radice nella visione che ho delle cose.



Un dialogo senza dialoganti, un monologo per dissociati. Un delirio. E Pierpaolo Sepe in questo delirio mi ci ha messo per bene. Costruendo la gabbia, mettendoci le voci e i rumori assordanti, la sporcizia e il dolore, gli insetti e i lavandini dei cessi. Quelli io ho visto. E poi buio, occhi mai intercettabili e gambe che sbattono a terra con il resto dei corpi per ogni passo.



Uno spettacolo che mi ha toccato parecchio nel profondo. Mentre altri affianco a me avvertivano forse immagini da metro, di disperazioni urbane. Cose fastidiose. Io invece tutta la desolazione di una donna che si era messa in silenzio di spalle.



Gli attori tutti bravissimi: Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli.



Visto al Teatro India di Roma - apertura stagione 2016/2017


02 dicembre 2016
Articolo di
nostoi
Rubrica:
Teatro


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