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L'Abisso è una parola scavata

L'Abisso è una parola scavata
di Chiara Merlo

Dove inizia la fine del mare?
O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi?
L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere?
(Alessandro Baricco)

L’abisso non può comprendere
il canto delle stelle.
(Kahlil Gibran)
(10 novembre 2018) Entrare all'interno di una conchiglia come fa il mare. Riempirla di sale, ucciderla e sputarla fuori. L'anima. Restateci dentro ancora un po', mentre muore. Il gesto è quello di prenderla, camminando su una riva qualsiasi, in una vita qualsiasi, dove il mare di nuovo tenta di riavere ciò che ha portato, sottrarla alla terra ancora bagnata, sconosciuta, con un moto che cerca, non pensato, una piccola cosa fragile da conservare. Quante conchiglie abbiamo tenuto in mano poi diventate inutili, senza più quel loro respiro freddo che davanti al mare trattenevano dentro?! Le foto dei morti. Noi siamo le foto dei morti. Di tutti i morti.

Il palcoscenico come quella conchiglia. Davide Enia con il suo racconto. Quel respiro che ancora sentiamo, messo all'orecchio, un sottovoce tremendo, con il ritmo delle onde che non riconoscono nessun nome. E gemono. Non sono i nostri morti! Sono altri morti! Sono altri! E noi non li vogliamo, ma ci arriva da lontano quel loro ultimo dolore, con le ragioni dell'acqua che li trascina sul fondo.


Ho sempre apprezzato il lavoro di questo autore, attore, regista, fin da quando ho iniziato a scrivere di teatro. Il suo modo di raccontare mi ricorda quello della mia famiglia. Intimo, assoluto, antico. Con i gesti delle mani, le pause della faccia, che si ferma sulla parola, la culla della frase, musicale, che dondola e calma anche se veniamo terrorizzati da quello che ci dice, la disperazione che non muove i nostri occhi, sbarrati, atterriti. Finalmente atterriti! E una volta seduta, mi faccio vicina su quel confine, quella voce che mi attira, mi ci fa cadere dentro, nell'acqua, e, sempre più vicina, mi sorprende e mi investe. Come un'onda. Mi sprofonda in quel naufragio del nostro tempo. Ma con la voce dei nonni, dei miei nonni. E mi racconta di conchiglie, vuoti di persone, donne e uomini e bambini che non abbiamo saputo raccogliere nel nostro respiro e che però abbiamo portato via con noi, nelle nostre case: immagini di morte che abbiamo soltanto archiviato nelle rappresentazioni sommarie di sordide ideologie mai superate.



Su un'isola con il vento, quel respiro invece ha devastato con il suo freddo le nostre esistenze infelici, e non lo abbiamo saputo, non lo abbiamo capito, non ce ne siamo accorti, di essere infelici. Da dove veniva quella nostra infelicità. Non abbiamo voluto sciogliere in emozioni, in calde parole, la vita preziosa che voleva raggiungerci, di sconosciuti, stranieri si, che in qualche modo volevano appartenerci, come amore non visto che non abbiamo creduto di tenerci stretto. Aridi, senza mare, in quest'epoca senza disperazione, dove la disperazione è stata soffocata e sostituita semplicemente dall'odio e dal niente, Lampedusa e il Mediterraneo sono la nostra indifferenza.



Eppure gli immigrati di questo testo teatrale sono ancora vivi e stiamo ancora cercando di salvarli. Anche noi che stiamo solo seduti ad ascoltarli, mentre gridano, piangono, si aggrappano esausti alle nostre braccia forti eppure messe conserte, aggrappati a quelle di chi vuole a ogni costo portarli sulla terra perché possano respirare ancora. Noi e quella gente del posto.



Alcuni di quei naufraghi però spariscono nella notte e nel buio profondo. E allora piangono i volontari, per non essere stati più forti del mare che li ha così crudelmente inghiottiti. E viene voglia anche a noi di piangere, che ce li siamo soltanto immaginati davanti.



Davide Enia porta il padre, e lo zio, in questo viaggio verso il naufragio, perché è così, ci portiamo dietro le persone di riferimento, la nostra famiglia, quando andiamo a vedere cosa vuol dire il dolore, e li portiamo in noi stessi. Così se vogliamo capire il nostro percorso interiore, la nostra vita, le nostre relazioni fondamentali. E non possiamo non andare sul posto dove muoiono i morti del nostro tempo, se vogliamo andare a cercare la vita anche dei nostri figli. Sarà quindi facile sovrapporre esistenze. E allora anche le foto che fai, di vivi e di morti, saranno come immagini che ti sei cercato dentro. E le "malattie" che hai visto saranno quelle che non ti avranno dato più salvezza.



É fatto davvero molto bene questo spartito. Raccoglie tutti i rumori i suoni e le note. Il dialetto e il registro del "cunto" siciliani contestualizzano la scena. Una scena che rende ogni attrito lirico, in un accumulo emotivo e collettivo di contrasti.



Tratto dal suo nuovo romanzo in presa diretta da Lampedusa "Appunti per un naufragio" (Premio Mondello 2018), "l'abisso" ci racconta di una guardia costiera costretta a trasformare il proprio mestiere, addestrandosi fisicamente e psicologicamente a salvare vite umane di migranti, o recuperarne i cadaveri, ma anche di un uomo solo che vuole andare a vedere, per documentare se stesso, la sua gente e la sua incapacità.



La musica, scritta ed eseguita in scena da Giulio Barocchieri, non ci lascia scampo, esprime tutta l'angoscia e il trauma degli sbarchi, muovendo tutte le voci, i canti, il metallo e il pianto in quel miscuglio di emozioni e vibrazioni inquietanti della realtà che viviamo, ma attraverso induzioni che procurano, in un qualche modo, suggestioni che sono anche arcaiche e divine.



Visto al Teatro India di Roma


10 novembre 2018
Articolo di
nostoi
Rubrica:
Teatro


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