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Se l'atteggiamento diventa regola

Se l'atteggiamento diventa regola

(17 aprile 2009) Il tempo del no

Parlare delle “mafie” cercando di tracciarne i contorni e fornire un’analisi vera e completa, potrebbe sembrare un’impresa ai limiti dell’impossibile. Non certo per la mancanza di dati, eventi e nomi. Tanto meno perché non se ne conoscano, o se ne sottovalutino, pericolosità, estensione e forza d’urto.

Forse, allora, è proprio la quantità enorme di informazioneche accompagna il fenomeno ad impedire di ricondurre tutto all’essenziale, al nocciolo. Ed il nocciolo del “problema” quasi sempre lo si individua letteralmente “svelandolo”, cioè facendo cadere uno ad uno i veli che nel tempo si sono posati su di esso, ingigantendolo e contemporaneamente nascondendolo alla vista. La domanda che allora dovremmo porci è: “Sono io mafioso?”. Cercando, forse invano, di rispondere con un fermo “no”, potremo cominciare ad aprire gli occhi sull’enorme contraddizione sociale che si nasconde nelle nostre singole coscienze. Cominceremo, riluttanti e con non poco imbarazzo, ad ammettere che più del dovuto abbiamo ignorato, minimizzato, tollerato o condiviso comportamenti che di mafioso magari non avevano la sostanza ma sicuramente ne avevano l’essenza. Il problema, allora, diventa la leggerezza con cui ognuno di noi, tranne qualche sempre più rara eccezione, rifiuta di assumersi la sua seppur infinitesima parte di responsabilità. È senza dubbio facile alzare polvere gridando ai quattro venti che il mondo deve cambiare, molto più difficile è cambiare se stessi. Qui non si parla certamente della lotta al potere mafioso: questa ha i suoi uomini ed i suoi mezzi, esattamente come li ha la mafia, e si rende necessaria in quanto già esiste il problema; qui si parla al contrario di quello che si può e si deve fare a monte di tutto, prima che l’atteggiamento diventi regola. Diceva Giovanni Falcone: “La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”. È su questo che dovremmo concentrarci, perché non è certo una rivelazione dire che la guerra tra Stato e mafia, a conti fatti, delinea per lo più un desolato e frustrante quadro di inadeguatezza istituzionale, in cui ad emergere non è la voglia di vittoria dello Stato, bensì la volontà dei suoi rappresentanti di convivere con le mafie sul territorio, dividendo più o meno equamente il suo sfruttamento. Tanti osservatori e commentatori illustri ci hanno già spiegato come le istituzioni abbiano abbandonato i propri uomini migliori quando avevano cominciato a vincere alcune battaglie, impedendogli con ogni mezzo di vincere la guerra. Dobbiamo allora riappropriarci dei nostri diritti, del nostro domani, partendo dal basso tutti nel rifiutare qualsiasi atteggiamento anche solo accennato di quell’essenza mafiosa che ogni cosa fa marcire; dobbiamo ridare a noi stessi, ai nostri figli ed alla nostra terra quel prestigio che chi ci governa interpreta spudoratamente come propaganda occasionale, ma più importante di tutto dobbiamo sradicare con tutte le forze il dubbio che l’onestà e l’integrità siano pratiche inutili, perché, per dirla con le parole di Paolo Borsellino, “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.”. E così, quando avremo finalmente raggiunto il nocciolo, quando le negheremo il consenso, “anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.


di Carmelo Primiceri

17 aprile 2009
Articolo di
carmelo
Rubrica:
Società


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