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Che Avatar sei?

Che Avatar sei?

(22 aprile 2009) La Tecno-mediazione nella Società Liquida

Come figli del terzo millennio, ci è data la possibilità di vivere le trasformazioni sociali con molta più consapevolezza rispetto alle generazioni precedenti e possiamo anche comprenderne le implicazioni dirette, o sospette, sulle nostre vite. Questo per un fatto puramente contingente: la società oggi corre, piuttosto che camminare, aiutata da una tecnologia sempre più presente.


Le connessioni che il singolo è in grado di stabilire con la moltitudine sono sempre più numerose. Viene quindi da sé che l’arco di una vita è più che sufficiente per poter cogliere il movimento di una società intera e vederne le trasformazioni. Assistiamo così al fenomeno della “tecno-mediazione”, ovvero quella tendenza sempre più forte ad affidare il nostro bisogno di comunicare ad un “alter ego virtuale”, un “avatar”, che porta per noi il messaggio fino alla sua destinazione. Pensiamo a quanti corteggiamenti vengono affidati a dei semplici SMS, ai gruppi che si creano tra gli iscritti di FaceBook o a quanti tengono in rete il proprio “blog” aprendosi completamente a tutti; i nostri figli, poi, avranno una naturale inclinazione all’uso di telefonini, internet, videogiochi interattivi e tecnologia in genere. Può sembrare comodo, immediato e certamente permette di mantenere molti più “contatti”, è innegabile, ma dietro a questo meccanismo si nasconde un’insidia che può far vacillare il modo con cui interagiamo con la realtà e perfino le nostre strutture emotive. Con l’utilizzo eccessivo di questi strumenti si può arrivare ad una forma di “alienazione” a causa della quale rinunciamo a relazionarci totalmente con gli altri, perché è il nostro avatar a farlo per noi. Così, due bambini possono giocare alla boxe senza mai toccarsi; un “TVB” via SMS ci priva una volta in più della possibilità di guardarsi negli occhi … e le nostre emozioni restano superficiali, limitate a quello che possono esprimere le sole parole. In altri termini, si perde quello che crea la solidità di una relazione, di qualunque natura essa sia: l’empatia, la capacità di soddisfare i bisogni espliciti e di cogliere quelli espressi solo da gesti, sguardi o atteggiamenti. Tutto ciò non può che influire negativamente sulla qualità dei nostri rapporti che, liquefatti per adattarsi ad ogni nuovo contenitore, diventano fragili. Si preferisce un’emozione intensa e non duratura, un rapporto con gli altri fatto di episodi, in cui non c’è più la gratuità e l’impegno del concedersi, ma tutto risponde ad una logica di interesse comune, secondo la quale l’uno si rapporta all’altro solo finché ne trae un vantaggio. Viene perfino messo in discussione il valore delle relazioni tra figli e genitori e molti fattori sociali subdolamente ci spingono alla resa di fronte ad un rapporto impegnativo. A ben vedere, forse è proprio il modello di società cui stiamo giungendo che ci vuole così. È più facile controllare persone sostanzialmente sole perché in grado di interagire tra loro solo in termini di “sciami”, abbastanza fragili da non riuscire a reggere quella naturale quota di dolore, sofferenze e delusioni che la vita ci riserva, prede facili della disperazione. Poi però, quando ci guarderemo intorno per cercare qualche punto di riferimento tra le nostre istantanee di vita frenetica, necessariamente dovremo tendere verso quello che abbiamo sempre rifiutato di considerare: la gioia e la responsabilitàdi portare insieme il peso di ognuno.



di Carmelo Primiceri


22 aprile 2009
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