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Il costo del divertimento

Il costo del divertimento

(12 febbraio 2010) L’industria del cinema ha ritrovato linfa vitale con l'introduzione del 3D di nuova generazione. Una tecnologia in realtà conosciuta da tempo, che però solo di recente ha avuto una importante evoluzione. Attualmente esistono tre differenti possibilità di visione 3D che sono rappresentate da altrettanti produttori: RealD, Dolby3D e XpanD.
Il sistema XpanD pur essendo il più performante è costosissimo per via sia dell’impianto in sala che per il tipo di occhiali, con lenti LCD attive e sensori infrarossi, che arrivano a costare anche 100 euro il paio; il sistema Dolby3D non convince del tutto gli operatori poiché soffre di anomalie cromatiche ed in generale il rapporto qualità prezzo degli impianti non è favorevole; il sistema RealD, infine, offre ad oggi il miglior compromesso poiché pur comportando un impianto di base piuttosto costoso ha il vantaggio di utilizzare occhialini leggeri, comodi e praticamente “usa e getta”.

Quest’ultimo sistema è infatti quello che più si sta diffondendo nel mondo ed una rapida visita al sito della RealD ce lo conferma mostrando la mappa mondiale delle installazioni già operative.

Con 1.888 impianti in Nord America, 423 in Europa e 248 nel resto del globo, la RealD vanta ben 2.559 sale attrezzate. Considerando che mediamente una sala cinematografica su cui valga la pena di installare un impianto 3D dovrebbe avere 300 posti, se calcoliamo 4 proiezioni al giorno per soli 250 giorni all’anno, scopriamo che ogni anno nel mondo vengono distribuiti qualcosa come 767,7 milioni di occhialini “usa e getta”.

Alcune sale più attente raccolgono gli occhiali, per riciclarli dopo una fase di lavaggio e sterilizzazione, molte altre semplicemente regalano gli occhiali e poi sta allo spettatore decidere se e come riciclarli. Fare una stima di quanti occhiali vengano effettivamente riciclati e quanti finiscano in discarica è difficile, ipotizziamo quindi, salomonicamente, che si tratti del 50%. Questo vuol dire che, al peso di circa 50 grammi per paio, ogni anno verrebbero scaricate nell’ambiente oltre 19.000 tonnellate di plastica solo per l’industria del cinema 3D.

La lettura di dati come questi impone a tutti di valutarne l’impatto ambientale senza voler “demonizzare”: una sensibilità matura verso temi che non possiamo comunque permetterci il lusso di ignorare forma una maggiore corresponsabilità ambientale, come società civile e come individui.

È noto che la plastica si ricava dal petrolio e dalle sue nafte attraverso un processo chimico chiamato cracking. Dal cracking si ottiene, tra gli altri composti, il polietilene, il padre di tutte le plastiche, utilizzato in non si sa più quanti campi di applicazione. Il polietilene è chimicamente inerte ed è degradabile in circa 36 mesi.

Facciamo a questo punto chiarezza sui concetti di degradabilità e biodegradabilità. Al pari della fotosintesi, la biodegradazione è indispensabile al mantenimento dell’equilibrio biologico dell’intero ecosistema Terra poiché consente di riciclare le “scorie” mediante la loro assimilazione da parte di microrganismi in grado di immettere nuovamente in circolo le sostanze naturali degradate. Tutt’altra cosa è la degradabilità. Questo indice ci dice soltanto in quanti anni un dato composto degrada nei suoi elementi costitutivi, ma non è detto che questi elementi possano poi essere riassorbiti dai microrganismi e riutilizzati in natura. Le sostanze chimicamente inerti sono degradabili ma non biodegradabili.

Uno studio giapponese condotto dal ricercatore Katsuhiko Saido per la Nihon University a Chiba, per la prima volta associa alla plastica la possibilità concreta del lento rilascio di sostanze tossiche in mare. La ricerca dimostra come la decomposizione della plastica emetta una serie di sostanze chimiche che non si trovano naturalmente, in particolare il bisfenolo A, già noto per causare uno squilibrio del sistema ormonale degli animali, ed alcuni monomeri, dimeri e trimeri altamente cancerogeni.

Lo studio, presentato nel 2009 presso l’American Chemical Society a Washington, riferisce che nei campioni di acqua prelevati dall’Oceano Pacifico sono stati trovati livelli di contaminazione di 150 parti per milione ed è recente la scoperta, sempre nel Pacifico, di un agglomerato di plastica galleggiante, detto Pacific Trash Vortex: un’isola di plastica grande il doppio dell’intera superficie del Texas e profonda circa 30 metri.

Questi dati non necessitano di ulteriori commenti. Tornando allora al nostro incipit, varrebbe la pena di fermarsi a riflettere se davvero valga la pena di continuare ad alimentare questo “avvelenamento” nel nome di attività di puro intrattenimento.

di Carmelo Primiceri

12 febbraio 2010
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