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Le piazze ci parlano

Le piazze ci parlano

(23 febbraio 2011) Se non ora
quando?

Se c’è una cosa che le grandi rivoluzioni del passato ci insegnano, è che una volta riconosciuta la portata del cambiamento, poi se ne deve mantenere vivo lo spirito. Gli effetti sulla società, sulle sue regole, sui modelli che ne derivano vanno consolidati, devono perdurare, e bisogna vigilare perché non si perda la percezione di quale sia stata l’origine e quale il prezzo pagato. Diversamente, la “battaglia” è persa comunque. L’idea, il principio, il “male sociale” allora sconfitti, gradualmente riprendono vigore, ritrovano il loro posto, tornano a colmare il vuoto della memoria.

Te ne accorgi quando in un Paese considerato tra i più evoluti del mondo, storicamente “culla di civiltà”, aumentano le distanze tra Stato e cittadino, con quest’ultimo lasciato senza i mezzi per interloquire col primo; quando tutto sembra mancare di direzione, prospettiva e orizzonte; quando, infine, la dignità e l’identità devono tornare ad essere gridate nelle piazze. Le piazze, per l’appunto, sono dalla notte dei tempi il punto di partenza di ogni cambiamento sociale. Quello che succede in una piazza che spontaneamente si riempie ed amplifica un solo pensiero, indica all’unisono una via, non è controllabile, non si può piegare, educare o, alla lunga, reprimere. È la voce del disagio prima che la voce del dissenso. E quanto disagio proviamo nel vedere così sviliti e maltrattati i frutti di grandi cambiamenti quali Risorgimento, Resistenza, Emancipazione della donna, Integrazione razziale? Se fino a ieri queste parole evocavano valori consolidati e fondanti (o almeno credevamo di aver avviato qualche progresso nella loro direzione), oggi ci svegliamo col dubbio di averli mandati in malora per anni e anni di compromessi, indifferenza e piccole o grandi connivenze. Sopportare ed accettare che si compia una qualsiasi di queste aberrazioni semplicemente perché lontane, avulse da noi, non basta, non assolve. L’aberrazione diventa sistema. L’errore diventa regola. Quindi niente regole: contano solo la capacità di imporsi ed i mezzi per comprare consenso. Lasciare che si affermi una cultura così pesantemente basata sull’individuo come esclusivo contenitore di valori propri, auto costruiti, auto referenziati, lentamente snatura il senso di una collettività che cerca di realizzare nell’equilibrio tra bisogni dell’altro e personali desideri un progetto di convivenza libera che esprima allo stesso tempo le idee di una società coesa. Sembrano ragionamenti astratti, meri esercizi di forma. Ma della sostanza di cui sono fatti troviamo tracce in ogni dichiarazione pubblica, riscontro in ogni commento privato. Nel modo come l’abuso distrugge la storia, il denaro compra lo spirito, l’ignoranza prevarica il principio, la corruzione annichilisce il diritto, il grigio seppellisce il verde. Prima o poi tutto questo diventerà intollerabile, magari quando ognuno di noi non saprà più come tutelare i propri piccoli meschini interessi o quando non avremo proprio più nulla da perdere, da perdere ancora. Ma sta già succedendo, le piazze parlano per noi, parlano a noi. La Democrazia va pretesa finché esistono i mezzi minimi per tutelarla, è l’unico equilibrio stabile possibile.


di Carmelo Primiceri

23 febbraio 2011
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