Milioni di persone, senza quasi nessun diritto sul lavoro e senza certezze di poter migliorare il proprio stato sociale, fanno quello che da noi viene etichettato come un semplice ed inevitabile “tirare a campare”. Per loro, però, quella condizione è la vita e dentro quella condizione crescono, sperano, amano e lo fanno con molta più serenità e dignità di quanto noi possiamo immaginare.
La nostra società “civile” si trova invece ad un bivio importante e la scelta della direzione da percorrere da oggi in avanti potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte. La precarietà potremmo scegliere di accettarla, non perché inevitabile e non per “tirare a campare”, ma come occasione per capire, crescere e ridare valore a ciò che vale veramente, cercando di non soccombere al ricatto di un modello di vita in cui la ricchezza si misura in base alle cose di cui ci circondiamo, piuttosto che alle persone, ed un’agenzia privata di investimenti (si legga speculazioni) può decidere di far fallire uno Stato sovrano da un giorno all’altro assegnandogli un “rating”.
Da questo modello, da questo ricatto, appunto, in cui ci siamo infilati con le nostre stesse mani, non esiste riscatto senza pagare dazio. Allora cosa perdere? Cosa sacrificare? Quello che sta succedendo oggi è un autentico paradosso, poiché qualcuno ha deciso di scegliere il male peggiore. Impotenti o complici che siano, i Governi cedono al ricatto del più brutale ed inumano sistema economico che in 40.000 anni di esistenza l’homo sapiens abbia mai concepito. Pur di mantenere lo status quo stiamo vendendo l’anima al diavolo, ipotecando il futuro dei nostri figli, cedendolo per pochi spiccioli agli usurai globali.
È qui che la precarietà diventa malattia, morbo, pestilenza. Non tanto per il necessario adattamento che comporta, quanto per l’incapacità di tutte le parti coinvolte di eliminare da questo adattamento la componente usurante, la mortificazione della persona, l’assassinio della coscienza. Non c’è niente di peggio della solitudine. Solitudine è proprio ciò che si prova nel constatare che stanno andando in fumo secoli di lotte per ottenere dei diritti pensati, in estrema sintesi, per dare a tutti una possibilità di riscatto, qualunque sia la condizione di partenza. Avere di fronte un percorso difficile ed insidioso non è precarietà laddove non lo si affronti in solitudine. Tutti avremo di fronte le nostre prove, tutti abbiamo il dovere di sentirci precari e tutti dobbiamo rivendicare il diritto di non essere per questo lasciati soli.