La morte di Mercuzio è la vera tragedia in “Romeo e Giulietta”, privato dell’amore pensato per altri...perché più facile è stato immaginarlo così giustapposto, destinato a personaggi più comodi, non certamente più fieri. Romeo e Giulietta incantati e incantevoli ma nel loro sonno, mentre un’altra esistenza è stata privata della sua causa, privata del suo racconto. Noi incatenati a quella caduta improvvisa, alla gravità e crudeltà degli accadimenti per come poi succedono, per come devono andare, non riusciamo a non riconoscere continuazione a quella vita imperfetta, seppure nella perfezione di un racconto che l’ha voluta così, seppure quel racconto non poteva essere raccontato altrimenti. Attraverso un amore assoluto, e non invece attraverso l’amore che non può più venire.
Intrappolati in questo schema di narrazione poter riuscire a stravolgerlo. Non sopportare più quel grumo sopra le ferite che non si rimarginano, evitare di indossare quel guanto, rosso insanguinato, delle ferite di tutti quelli che devono interrompersi marginali alla storia, sangue che poi sgocciola in tutti i passaggi della scena. Il sangue scorre tra noi, nelle nostre azioni più occulte, nella nostra morte quotidiana che avviene sempre all’alba, quando escludiamo un altro percorso, un altro finale, un’altra rilettura, un’altra possibilità di giornata. Forse questo è Mercuzio, ed è per questo che non vuole morire, ci conduce in un sogno che non abbiamo avuto il coraggio si sognare, in una vita che non abbiamo mai avuto il coraggio di vivere, forse è un abisso di autocompiacimento, non importa, in quel sogno, in quella vita, in quell’abisso noi comunque possiamo salvare una parte di noi, oppure ucciderla per sempre, perché troppo a lungo l’abbiamo interrata viva a impazzire.
La compagnia della fortezza e gli attori detenuti fanno la giostra, la follia di questi sogni mancati, inesplosi, e noi ci troviamo in un turbine di immagini ritrovate. Come destino la morte, come desiderio la vita. Enormi tele si muovo sullo sfondo e combinano il paesaggio per ogni stato d’animo esplorato. Bambine principesse in tutù saltellano come merli fra i corpi inerti dei morti e dei presenti. L’enigmista è una figura col cappello che porta le bambine per mano, e incrocia parole e silenzio, spazi e tempo nel suo scacchiere di bianco e di nero, mentre un enorme fiore rosso galleggia nell’aria, dove uomini vestiti di nero, spadaccini, si sfidano a duello in mezzo a gnomi e folletti. Dietro: sculture mutilate. Shakespeare a pezzi. Una suggeritrice vagante presta frasi da intrecciare all’infinito, citazioni di libri e di autori che di Mercuzio portano il peso, la sconfitta, la delusione. Ma anche la gioia, lo slancio, la passione.
Questo spettacolo nasce come spettacolo teatrale di strada, dove nei vicoli e nelle piazze si allargano le emozioni condivise di spettatori itineranti. In un teatro/scatola, con le sue pareti, tutto naturalmente si sovrappone, come le pagine di un libro già strappate che dobbiamo necessariamente ricomporre. É come un esperimento barocco, dove le suggestioni vengono ammassate in uno spazio/tempo fin troppo ridotto. E così la stessa bulimica scena divora costumi e musicisti, funamboli e quadri, e insieme parole e personaggi, riconoscibili e non, e ci travolge in un pieno di rumori e melodie, di ali e ombre moltiplicati sulle pareti e per terra, di riflessi di specchi dove all’interno si specchiano fin troppi volti. Si carica perciò di troppe maschere irrequiete che non sanno dove e come esprimere tutto quel loro profondo tormento. L’operazione drammaturgica è anche riuscita, cioè nonostante il luogo non fosse propriamente adatto al dispiegarsi di forme e colori come nell’aria aperta e poi all’interno di un borgo e della sua fortezza, fatta di cunicoli, celle e labirinti. L’impressione, nel fruire dei volteggi in questo spazio ridotto, è che tutti quegli strati di pelle staccati andavano scarnificati diversamente. Tutto comunque si regge in piedi grazie a una melodia che più volte è ricorrente, una ninna nanna di morte che ci restituisce l’angoscia dell’opera e della sua trasposizione, le favole che aleggiano intorno con tutti quei personaggi immaginifici che le suggeriscono, il dolore per contrasto dell’uomo nella sua condizione di incarcerato alla morte. Incarcerato come Mercuzio destinato a morire, incarcerato come l’attore che recita su di un palcoscenico davvero fin troppo piccolo per far evolvere quell’azione, incarcerato come lo spettatore che resta forzatamente sospeso in un vortice impazzito di stati d’animo e impressioni. Il lavoro di questo regista rimane comunque un lavoro di straordinario significato, innanzitutto per l’interpretazione suggestiva di un testo che diventa la metafora della vita dei detenuti, poi perché restituisce ai detenuti/attori la possibilità di ripercorrere quella metafora. Il progetto è davvero molto interessante perché porta la gente comune a riconoscersi nei sogni degli emarginati, e a salvare quei sogni come ipotesi possibili di realtà condivise. Porta tutti da una stessa parte del racconto, perché quel racconto possa essere raccontato proprio come un’intenzione diversa.
ideazione e regia Armando Punzo
ideazione scene e ambientazione Alessandro Marzetti Silvia Bertoni Armando Punzo costumi Emanuela Dall'Aglio
musiche originali e sound design Andrea Salvadori
aiuto regia Laura Cleri
movimenti Pascale Piscina
video Lavinia Baroni
collaborazione alla drammaturgia Alessandro Bandinelli Giacomo Trinci Lidia Riviello
bozzetti di scena Silvia Bertoni
direzione allestimenti Carlo Gattai Fabio Giommarelli
disegno luci Andrea Berselli
suono Alessio Lombardi
collaborazione artistica Manuela Capece Stefano Cenci Luisa Raimondi assistente alla regia Alice Toccacieli
altre assistenti Elena Turchi Carolina Truzzi Marta Panciera Daniela Mangiacavallo
assistente alla realizzazione delle scenografie e allestimenti Yuri Punzo