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La trappola. Lavia e l'identità liquida

La trappola. Lavia e l'identità liquida
di Veronica Turiello

Il corpo è un perfido e un traditore: con lui viaggiamo come con un Thug. Fa sorrisi alla vita ed è un sicario della morte
- Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo, 1979 -
(10 marzo 2013) Siamo sospesi fra il cono d’ombra del tempo che ci separa dalla morte e la luce tremolante della candela. Qui si consuma la cera e la vita. C’è uno strappo fra esistere e amare l’esistenza. Uno strappo insanabile che nessun punto rimargina. Un vestito stretto, “ un vestito che si logora è il corpo “. Un tedioso, malato scorrere di ore piene di luce e buio. L’incessante, spossante attesa del prossimo coagulo. Del prossimo grumo di immobilità. Tutto ciò che diventa forma, struttura, tutto ciò che si fa contesto delineato, tracciato, delimitato è già morte. È già dopo, è già più in là.


Si apre su un labirinto di alti mobili antracite, accatastati al buio, questa “ Trappola “ diretta, rielaborata e interpretata da Gabriele Lavia, in cartellone al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 24 marzo e in numerosi teatri della penisola, fino al 25 aprile.



È forse la più dolorosa e straziante analisi filosofica della vita-non-vita o vita-già-morte di Luigi Pirandello. Al culmine del suo percorso linguistico e culturale lo scrittore agrigentino si annoda nelle fila invisibili della tela di sentimenti, ragionamenti e falsi rituali d’esistenza che non fanno altro che rimarcare l’assoluta nullità di tutte le cose. Prima fra tutte l’esistenza stessa dell’umana specie. L’assoluta inconsistenza e inutilità del respiro è quasi claustrofobica, quasi reale nell’intensissimo e ammaliante monologo di Fabrizio (Gabriele Lavia), intrappolato in un ripetuto iter di azioni, rivissute ogni giorno uguali a loro stesse, anelanti, tutte, la morte. Un ripetersi di giorni d’ombra e sole falso, notti di luci artificiose e tremule, di pianti e lamenti. Un groviglio di ossessioni legate all’artifizio convenzionale di essere uno. Unico. Determinato.



Un destino identico è quello vissuta dal vecchio padre ammalato (Riccardo Monitillo), corpo immobilizzato sulla sedia a rotelle. Fulcro delle ripetizioni odiose del rumore vitale del corpo che si disfa, cigolio delle ruote, stridio del pianto, nenia della buonanotte. Il peso, il tanfo e l’odio per la disfatta, sono nella somma degli umori corporali, incontrollati presagi di decomposizione. Ogni corpo è un feretro di se stesso, inglobato in altri feretri fatti di stanze, abiti, monili curiosi e ammassati, come gli amori improbabili e i filamenti di altre esistenze incrociate per caso o messe al mondo per vendetta. Un finto smacco al tempo e alla morte, creato attraverso un falso amore, abbellito e illanguidito dai baci, usato per raggiungere un orgasmo – metafora liquida della vita e del movimento. Non è, questo liquido sentirsi vivi, che seme di altra morte. Solo fissata in un limite temporale. Un po’ più in là.



Trappola bella è l’utero della donna (Giovanna Guida). Trappola è il suo corpo, sciolto in forme suadenti, immaginate troppo più vive di quello che sono, per via di quel movimento sempre sinuoso, sempre vortice, sempre incantesimo somministrato ad arte. Una matrioska di morte. Una scatola con dentro una scatola che si apre sul buio, “ l’altro sole “. Non c’è un'identità unica, sebbene ognuna di esse possa vantare un corpo. Poiché non c’è niente di più straniante e distruttivo dell’identità singola, che pure, ogni uomo cerca sopra ogni cosa. La profonda crisi dei concetti assoluti permea ogni riga di questo monologo del disfacimento. Che è lacerazione. Ancora strappo.



Riconoscere il presente, riconoscere lo scorrere del tempo è un altro modo per fissarsi da qualche parte sulla linea delle ore. E’ invece guardare attraverso una lente invertita o decidere di lasciare la vita attraverso un atto estremo di energia canalizzata, l’unica vera salvezza di ogni vita. E' nell’odore acre della polvere da sparo.



L’idea continua della morte, questa “ fissazione “ quotidiana per la fine, non è che l’ennesimo atto autolesionista di ogni esistenza. Che arrovellandosi in infiniti ragionamenti e previsioni non fa che fermare, poco per volta, la fluidità. Che invece è vita. Lo sono il vento, il mare, il fuoco.



Non sa che essere modernissimo questo Fabrizio, opposto al senso baumaniano di società liquida nella sua accezione negativa e omogeneizzata. Una liquidità riletta come ribollire delle passioni, necessario agitarsi delle sensazioni, obbligato impedirsi di cristallizzare. Di gelarsi. E’ qui, in questo impedire alla forma di dar forma al respiro e soffocarlo, che si vince.



La trappola è un monologo incessante di uomo con se stesso, riflesso in uno specchio che non mente mai sulle insicurezze fin troppo ostentate che indossa, sulle maschere che veste. È la voce languida di donna, cliché borghese di solidarietà ridondante, amore falso e ipocrita, risata mefistofelica, bacio velenoso e sordido, lucido utilitarismo. È malinconia sempiterna del pianto di un vecchio padre morente, rassegnato ad una morte anticipata ma non conclusa, incastrato in un limbo doloroso di pietà.



Non si intravedono vie di fuga. Perché quelle trovate coincidono con quelle esasperanti con cui si è vissuti. Morte attesa per morte indossata. Un'identica marsina. Per vita e morte.



C’è da pensare che si riesca a restar vivi solo e per sempre in un irrequieto continuo stupirsi


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