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Capirò la tua paura del buio

Capirò la tua paura del buio
di Chiara Merlo

Avere figli fa di voi un genitore non più di quanto avere un pianoforte faccia di voi un pianista
Michael Levine (Lessons at the Halfway Point, 1995)

Ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo
Fernando Pessoa
(27 giugno 2013) Il Teatro Argentina di Roma celebra i 20 anni di Garofano Verde/Scenari di Teatro Omosessuale, con una serata di impegno civile unica e la messa in scena di “Still Life” di Ricci/Forte

Cosa sente una madre mentre partorisce, cosa spera. Cosa pensa prima. Quanto ama se stessa e la sua creatura. Quanto ama il mondo per fargli ancora dono di una vita oltre la sua. Quanto ama il futuro, anche al costo del sacrificio di quel figlio. Quanto ama nella rinuncia, decidendo al contrario per sottrazione. Mi sottraggo al ruolo. Lo sottraggo alla sconfitta. E chi ama quella madre per tutto questo slancio...se neanche la morte, la negazione, la scoraggia. Chi la ringrazierà mai per quella sua personale aspirazione o privazione di continuità?

Si è genitori solamente se consapevoli.
É per un’idea di felicità che si fa crescere un figlio, che si aggiunge come una stella all’universo di tutti (uomo, donna, eterosessuale, omosessuale, transessuale, bisessuale...chi sia, la persona che sarà). Non è per consumare l’amore in un processo (biologico, psicologico, sociologico), non è per un gioco fasullo e ripetitivo soltanto di parti che si “partorisce” la vita. Perlomeno non dovrebbe essere così.

Ma poi siamo sicuri che quel ruolo culturalmente attribuito sia propriamente di donna? Si è “materni” per istinto o soltanto per amore sopraggiunto? Casuale o voluto? Voglio amore, voglio darne, è forse questo ciò che conta. Così a volte si diventa madri per un figlio che è già nato altrove. Allo stesso modo anche un padre può credere di diventare materno, anche più di una madre. A volte anche due padri o due madri possono esserlo al meglio, se materno significa “tenero, di rapporto fisico affettivo”. E così concepirne ancora.

Amore per ogni vuoto, amore per ogni offesa, per ogni vittima di impulsi violenti (socio-culturali o pseudo-biologici?). Amore. Amore è senza genere, senza doversi spiegare. Amore che non vuole essere disperazione. Amore che ha la sua metafora nel parto, nei respiri consumati dell’attesa, nel dolore fisico delle lacerazioni, nel sangue che sbotta a fiotti per sporcare il cammino dell’umanità, e che cerca nell’odore denso delle viscere il suo significato più recondito, ma che ha come prerogativa semplicemente la vita, la cura della vita di un altro, fuori da te interiorizzato.


Ma quanti sono i già nati che di quell’amore mai capiranno la causazione, la generosità di una compenetrazione esistenziale (non meramente biologica, né banalmente religiosa o ideologica). Cercata dentro. Amore. Quanti mai capiranno che all’origine dell’amore c’è la diversità, che è proprio il suo fine quello di diversificare. Sperimentazione di unicità. Non iper-biologica. Esistenziale. Amalo, comunque è diverso, diverso da te, da me, da quell’altro, ciò a prescindere dal sesso. E anche il frutto di ogni amore sarà diverso. Così ogni figlio diverso da tutti gli altri figli su questa terra, venuti al mondo solo per essere se stessi. Con vero amore “materno” l’amerai proprio per questo, per questa sua diversità che si aggrappa alle tue viscere, al tuo più intimo sentire il suo domani.



E come può la vita allora convincerti che non sia così, che sarebbe stato meglio non farsi avanti nel destino del mondo con i propri autentici occhi, invece tremare, di paura, proprio nel mentre sei partorito alla vita e vorresti crescere con quel pensiero superiore, desiderio di alterità, sentimento infinito che ti porta a quella tua propria identità, sempre di più, sempre più in là, sempre più avanti al di là del presente. Perciò davvero non importa di che genere è la persona che ami, che ti ama. Ti ama e questo basta. Perché senza questa altruistica aspirazione, a restare diverso, ogni individuo verrà violentato, educastrato, annullato, e solo per un’idea di famiglia che è sopraffazione, funzionale a un’idea di società finta che è di sopraffazione. Divorato dal senso comune, da un’idea di normalità che lo renderà soltanto carne già in putrefazione. Gregge. Natura per essere divorata, martoriata, de-composta.



E come può essere meglio soffrire del corpo, nel corpo, rifiutando quella propria unicità meta-fisica, pensando che amare sia così difficile per uno che (come ogni altro) è diverso, che ugualmente ama, ma diversamente? L’anima si perde in un bacio istante per tutti. Perché punirlo? Perché punirlo un bacio che mai si vende e soltanto si dona? Intorno alla negazione di un bacio, fra due uomini, fra due donne, la vita si fa morte.



Still life, “natura morta”. É l’immagine impressa di luci e di ombre di corpi resi inanimati come da un’ibernazione forzata, sconfitti, fermati nel loro disfacimento più violento. Ragazzini morti a soli 15 anni, uccisi o che si sono uccisi, e i nomi appaiono e scompaiono su di uno schermo, annientati per sempre dal pregiudizio, e da uno Stato che non si chiede dov’è che è cominciata quella violenza, quell’abbrutimento, com’è che si arrivati all’omofobia, a quell’indice di vulnerabilità/indifferenza. Un’Italia misera che vede soffocati i suoi figli e non si chiede come intervenire, e non si chiede di chi sia la colpa, come cambiare. Sottacere.



Il teatro di Ricci e Forte diventa spietata denuncia, non spettacolarizzazione, dialogo, l’urlo strangolato e angosciante di un massacro, di questo nefasto fallimento sociale. E lo fa ricordando in particolare le vittime più giovani, sacrificate all’uso del più forte fra i compagni di scuola. Bullismo e mobbing psicologico nei casi più eclatanti, rapporti abusanti invisibili nelle situazioni relazionali più diffuse, dove vergognarsi è il minimo dell’espiazione richiesta. La scena ha sullo sfondo le piccole luci di migliaia di rossi lumini accesi: il teatro è una chiesa, la camera ardente, la stanza della memoria.



Sul palcoscenico vittime e carnefici, ragazzini spietati che si sono assaltati come prede, ora con voci interrotte che soffrono in ginocchio, infine abbandonati esausti su un pavimento bagnato di lacrime. L'immagine più inquietante è quella dei cuscini. I soggetti vengono soffocati dai cuscini, com’è nelle simulazioni dei giochi infantili fra i ragazzi, alcuni si fanno esplodere e si liberano alla vita fra tutte quelle piume, altri agonizzano nell’ombra, nel silenzio, scivolando in un angolo senza più avere la possibilità di respirare, si lasceranno annodare come lampadari tristi che penzolano nell’oscurità...



Bravissimi i cinque performer (Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Loera, Francesco Scolletta), usano i movimenti del corpo per tracciare respiri, mancamenti, cadute...



Non è originale la sovrapposizione delle parole su schermi come installazioni, ma d’effetto, mentre ancora una volta è assolutamente specialità della compagnia polverizzare gli oggetti di scena in residui sparpagliati dovunque, parcellizzazioni di materia necessarie all’idea che si vuole dare della frantumazione e del frammento, di macerie e di sporco appiccicoso. Importante il gesto simbolico delle parole e dei nomi invece scritti sulla lavagna dagli spettatori, semiotica dell’olocausto, e allo stesso modo interessante l’uso degli innaffiatoi, innaffiatoi di pioggia, di lacrime, che sono doccia negli spogliatoi, che sono acqua che alimenta e purifica la vita, che bagnano di liquido biologico anche il pubblico più distante.



Il rosa è il colore dominante, anche quando soltanto sottinteso, a ricordare l’adolescente romano che si è impiccato, ridicolizzato per la sua non conformità (sessuale). Eppure non aveva dato ancora neppure un bacio. La sua purezza ci costringerà a lottare, anche se il suo nome verrà presto spento, dimenticato.


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