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"Aspettando i Barbari" L'inquietudine dei Massimo Volume
di Dario Ameruso

"E non c’è niente fuori, credimi, non c’è niente fuori. Tranne i colori che già conosci"

"Salendo le scale
ci ha spaventato il silenzio
e qualcosa che pareva un'attesa
Abbiamo consacrato ai nostri idoli le montagne intorno
confidando nella loro protezione"

Massimo Volume
(22 ottobre 2013) Capaci di fondere in un’atmosfera unica e molto personale post-rock, noise, sfumature new wawe dal forte sapore letterario e cinematografico, con scenari di dramma esistenziale e urbano, erano tornati sulle scene qualche anno fa (dopo alcune perle degli anni 90) con il sorprendente e significativo “Cattive abitudini”.

La stessa densità stilistica la ritroviamo intatta nel nuovo lavoro “Aspettando i Barbari”. È un momento di grazia. Di quelli che segnano in profondità. Il risultato è un intenso viaggio poetico e musicale capace di regalare brividi. Malinconie lancinanti sospese tra rock e letteratura (il titolo riprende un libro di John Maxwell Coetzee). Musicalmente parlando qualche novità si scorge sull’uso misurato dell’elettronica, su una maggiore ruvidezza del suono, mentre il quartetto, che tesse l’intricata trama musicale del sesto album in studio della band bolognese, prevede il nostro Emidio Clementi, autore dei testi, al basso e voce, Vittoria Burattini alla batteria, Egle Sommacal e Stefano Pilia alle chitarre, mentre Marco Caldera oltre alla produzione, suona il synth in alcuni brani.


"Aspettando i barbari" racconta il nostro tempo angosciato, il mondo liquido che pervade le nostre realtà. La diversità sinistra. L’orrore dietro le porte. Il tepore delle nostre case e il buio fuori. L’ombra di altri orizzonti che lambiscono i nostri confini. I confini di una civiltà che si erige perfetta tra le rovine. Fragili esistenze già corrose da scarse certezze inciampano in vuoti esistenziali, in minacce al precario equilibrio faticosamente costruito.



Non a caso la copertina, rappresentata dal quadro di Ryan Mendoza, racchiude forse il senso di tutto l’album come segnalato dalle note dell’etichetta La Tempesta:  “due sorelle si abbracciano in quello che una volta si sarebbe definito un interno borghese. Una ha il capo riverso sulla spalla dell’altra, gli occhi chiusi, l’atteggiamento di totale abbandono. La sorella la tiene stretta a sé, protettiva. Ha lo sguardo vigile, come se fosse stata attratta di colpo da un rumore, da qualcosa che fra un attimo spezzerà l’intimità della scena



La canzone "Aspettando i barbari" lascia senza fiato. Con tranquilla disperazione, mentre pochi arpeggi accarezzano l’anima, Emidio Clementi apre alla poesia:



Ora che l’orizzonte/è in fiamme/noi rincasiamo/serriamo in fretta le imposte/mettiamo in ordine i fogli/le provviste/i vestiti smessi dell’estate/in attesa dei barbari/le impronte lungo la strada/portano dritto al nostro giardino/non te l’ho detto/non te l’ho mai detto/nel sonno le tue braccia/sembrano ali stanche/in fuga dai barbari/lo so,/non era questo/il vino promesso/gli inviti/i fiori/le risate/ma stanotte/la notte/è una lama illuminata/che taglia il buio/e la paura/e punta avanti/dove tutto/riposa immacolato/e giusto/e nostro/e puro/prima dell’arrivo dei barbari/ora che la sera/accorcia le ombre/noi ci ritiriamo/e di fronte allo specchio/come spose/ci acconciamo/in onore dei barbari



Un mondo in lotta e sotto costante minaccia dove “vince chi resiste alla nausea, chi perde meno, chi non ha da perdere” come nella canzone “Il Dio delle zecche”, ispirata interamente da frammenti del poeta e sociologo Danilo Dolci. La mediocrità che avanza, adattandosi.



La complessità musicale va di pari passo con l’articolazione dei riferimenti in “Dymaxion song”. Le chitarre creano un vortice di suono mentre Clementi recita John Cage e mette in scena il rapimento di fronte ai progetti di Richard Buckminster Fuller a cui la canzone è dedicata.



La guerra totale e psicologica prende corpo nella minacciosa “Il nemico avanza” attraverso le parole di Mao Tse Tung. Un senso di nascosta inquietudine tra le macerie di un campo di battaglia. Le strategie. La guerra come metafora della vita e della morte. Il freddo calcolo per la sopravvivenza.



Lo stesso allarme pervade le note di “Compound”. Il pericolo che minaccia i confini. Echi di guerra. La barbarie del terrorismo e la nostra. Le familiari città bunker fatte di una perfezione solo apparente. Sicurezze rette dall’insicurezza.



...gli uccelli/sul tetto/stanotte/frugano/tra le rovi/del nostro/mondo perfetto



Se ne “La Cena” scorrono visioni private e familiari venate di elettronica che non sempre risulta accattivante, ne “La notte” rivive tutto l’universo di Emidio Clementi. Piccole storie universali dal sapore notturno, minimali malinconie del tessuto urbano. Una notte di pensieri ad alta voce con le chitarre che carezzano questi lucidi fotogrammi fatti di visioni e solitudini. Wenders è dietro l’angolo. Come il destino.



Stesso risultato per “Silvia Camagni”, un condensato dell’estetica musicale e narrativa dei Massimo Volume. Chitarre noise e disturbanti, arpeggi sinuosi e narrazione lenta:



...Se ne andò di casa/un pomeriggio di maggio/lasciando che il sole sbiadisse/tutto quello che era stato/portò con sé gli occhi neri di sua madre,/un orologio rotto,/la promessa inutile di/un indirizzo sbagliato/poi in un bar lungo la strada/un ragazzo le chiese/della sua solitudine…



Mentre “Vic Chessnut” è un omaggio in forma di frammento al cantautore statunitense, il brano “Da dove sono stato”  racconta l’universo poetico di Clementi e di personaggi fuori scena che chiudono idealmente il sipario su questo lavoro visionario e ricco di elementi.



Un disco dinamico e raffinato, sempre sospeso sull’ambiguità del presente, sul prodigio segreto della bellezza. Una bellezza intravista tra le macerie di un mondo in disfacimento. Tra le ombre e i suoi silenzi.



I Massimo Volume raccontano e suonano questo. Questo continuo sostare “lungo i bordi” di un mondo ferito.


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