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“Il ritorno a casa” di Pinter con la regia di Stein

“Il ritorno a casa” di Pinter con la regia di Stein
di Chiara Merlo

C'è una strana malafede nel conciliare il disprezzo per le donne con il rispetto di cui si circondano le madri

(Simone de Beauvoir,
Il secondo sesso, 1949)
(15 gennaio 2014) Lei, Ruth, proprio non ci voleva andare. Presagiva quel pericolo. Le poteva succedere di essere dilaniata. Quelle belve l’aspettavano allupate lì dentro a quella loro tana. Tutti maschi incarogniti, il padre Max e i due fratelli, Lenny e Joey. La famiglia del marito, del languido suo Teddy.

La madre di tutti quei maschi, Jessie, era già morta, nessuna donna più perciò oltre quella “puttana” era stata buttata lì, prima di lei, a fare il pezzo di carne in mezzo a quelle quattro fiere spietate.

E nella scena iniziale, proprio per sentirci già forzatamente ficcati dentro a quel buco di selvaggi stupratori, il vecchio Max, con un bastone che agita come uno fallo, si accanisce contro il figlio Lenny, che però nemmeno lo ascolta, non è per niente intimorito, anzi, strafottente. Il dolore degli abusi forse lo ha reso così, un bullo, un bambino lasciato a se stesso e oramai fin troppo cresciuto in quel suo stato esistenziale così violento. Continua a leggere il giornale, stravaccato, con le scarpe sporche messe sopra il divano, con un’aria di sfida ostentata, e proprio contro quel vecchio, che pure lo minaccia ferocemente. E sembra davvero pericoloso con quel suo scettro di potere sollevato oltre la testa.

In questa scena già così drammatica, quotidiana, presagi rabbiosi per cani randagi che stanno per azzuffarsi. Cercano solo di trovare una preda, e la preda arriverà presto, una femmina: Ruth.

L’altro figlio Joey, un po’ scemo, forse più docile e perciò instupidito dai continui assalti del padre e dell’altro fratello, è intanto tornato dai suoi incontri di boxe. Lo avranno convinto che non si può essere timidi e sensibili, seppure stupidi; meglio irrobustirsi fra i colpi efferati della vita usando un gancio destro, e poi uno sinistro, anche a caso. Tutti perciò pronti alla lotta come in quei recinti clandestini dove il più forte deve ammazzare, e i più deboli vengono gettati in mezzo solo per esercizio alla sopravvivenza (viene in mente il film di Iňárritu “Amores Perros”, il primo capitolo della trilogia della morte).

Ma con i testi di Pinter, l’aplomb inglese del come vengono dette le parole, sembra non tradire i comportamenti carnivori di queste dinamiche familiari. Il recinto è solo sottostante. Ed è proprio questo il paradosso dialogico, la semiotica del linguaggio. Pinter svela l’abisso che si nasconde dietro ogni parola (del resto è questo che gli hanno riconosciuto alla consegna del Premio Nobel per la letteratura nel 2005). E ogni parola diventa un comportamento. Un avvitamento per ogni possibile interpretazione.


Perciò, le parole scambiate, a cui i personaggi si tengono stretti per non cadere nei loro stessi vuoti, vengono conficcate coi denti nel corpo dell’altro, nella sua più profonda e inconscia interiorità, e con una estrema naturalezza, disinvoltura. Diremmo conformità. Abitudine. Con quella crudeltà anaffettiva delle parole di tutti i giorni che abusano dell’intimità relazionale familiare. Per sempre. Quella violenza psicologica, innanzitutto verbale, ma assolutamente anche non verbale, dei gesti, delle smorfie del viso, degli atteggiamenti, del modo di camminare o di rivolgersi, e di entrare in una stanza o di uscirne, viene nevroticamente sfogata ossessivamente contro i propri cari, e in particolare contro le femmine del proprio gruppo di appartenenza.



Ogni ritorno a casa è drammatico e infelice, diversamente da come si crede, o si spera, e anche in questo caso. Addirittura fatale per il primogenito (maschio) di questo branco, che inaspettatamente, sorprendentemente (così parrebbe), si cala di nuovo, e dopo esservi sfuggito, dentro a quel recinto di morte che ancora forse custodisce gelosamente più nel profondo. E la vittima sacrificale, il pezzo di carne, la femmina che sta per essere smembrata, non è certo per lui. Non se l’è meritata. È lui che la offre trascinandosela dietro Quella sua stessa giovane moglie tenuta nascosta per tanti anni e portata inizialmente così tanto lontano. Ciò pur di poter riappartenere a quel proprio contesto familiare/ambientale che forse mai ha voluto, né ha potuto, dimenticare. E né ha superato culturalmente.



Come una culla, la famiglia è il posto dove in ogni caso ci si sente al sicuro, anche se si sta per essere divorati. Anche se all’interno di quella famiglia verrà smembrato ogni stato d’animo e sentimento. E anche l’amore.



Chi se ne va lontano dai propri “cari” ha scelto la fuga rispetto alle proprie origini inaccettabili, se ritorna, rinuncia all’emancipazione tentata, all’affrancamento sociale cercato rispetto a quella propria tribù. Teddy non ce la fa. Pur essendo diventato professore di filosofia in America non riesce a resistere a quella forza attrattiva che esercitano ancora i suoi parenti, quella gravità vorticosa che lo costringerà un'altra volta alla prostrazione. Stavolta definitiva.



Più che inaspettata perciò, la scena del ritorno è trepidamente attesa proprio da chi è rimasto, e con una certa smania, voglia. Quei fratelli daranno prova di un istinto di sopraffazione animale che non concede troppa distanza. Così lo sappiamo da subito che deve succedere qualcosa e dovranno sfogarsi tutte quelle tensioni affannose e ansimanti per come evidentemente sono state alimentate dal tempo e dell’abbrutimento. Infatti da subito ci mettono in agitazione. Gli spettatori tossiscono in continuazione (realmente anche per i sigari volutamente consumati in scena)



Sotto le sedie si addensa il degrado e la depravazione dei rapporti. Solo per come vengono disposte. La poltrona del capo branco è al centro, consunta e lercia, ma inaccessibile agli affiliati. Figuriamoci a una donna. Eppure Ruth appena arriva è proprio su quella che vorrebbe sedersi, proprio come una “vittima precipitante” che immediatamente viene sedotta dal suo carnefice, affascinata dalla trappola felina che quello le ha predisposto accattivante nell’ombra. Prontamente fermata dal marito, che in quella casa non si capisce perché continui a trattarla come fosse un’ospite, un’estranea, desiste. Per il momento il marito la salva.



Del resto quando arrivano, tutti gli altri dormono. Eppure lei già sente il disagio, l’agguato, e vuole prendere aria. Lui non vorrebbe uscisse nella notte, in fondo quella casa non è mica abitata da “orchi”. Eppure sa che è meglio non svegliarli. Poi si fa mattino, e quando la vedono arrivare in vestaglia, tutti gli gridano contro “hai portato una puttana in questa casa?!”. E non sentono ragioni, neanche tutte le volte che lui urla loro contro “è mia moglie”. Solo quando insiste dicendo “è la madre dei miei tre figli”, tutti si fermano con la bava alla bocca, ma solo per un istante. “You a Mother?!”. Solo di fronte a quel ruolo è quindi possibile acquietarsi per un momento, fermare l’assalto del maschio famelico.



Ma come quell’altra madre, la loro stessa madre, è pur sempre una femmina, e perciò anche lei è una “stuzzica cazzi”, insomma una puttana come tutte, e come tutte da puttana andrà in ogni caso trattata (anche se madre!). Alla fine lei li accontenta, accetta inesorabilmente quel ruolo, dal quale neanche il marito riesce a difenderla. Ma proprio da puttana poi li mette in ginocchio. Non è certo un riscatto, ma piangono innamorati, finalmente impotenti.



“Non sono ancora un vecchio” dice Max alla fine, accasciandosi come il figlio Joey sulle sue cosce. “Baciami”, sussurra tremando. Intanto Lenny fa i conti per quel prossimo investimento. E Teddy se ne va sconfitto per sempre da quella scena.



Se questi personaggi si aggrappano alle parole, armi di difesa e di attacco, angoli di sconfitta, in quest’opera assoluta è però il silenzio a inquietare e distruggere, con le sue pause inaccettabili e le sospensioni previste dall’autore come fossero mancamenti. L’indifferenza è latente, è quell’atmosfera inglese dei mobili e dei colori, delle scale che portano al piano di sopra, perciò oltre quella tana, quel luogo così opprimente, ma non si sa bene dove, che non permette di respirare.



La regia ha magnificamente saputo rendere il microcosmo della scena in cui la famiglia sviluppa rapporti così animaleschi. E c’è un’inesorabile densità emotiva che gli attori, tutti davvero molto bravi (Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini e Arianna Scommegna) insieme al regista, hanno saputo cogliere nelle dinamiche riprodotte, per cui il malessere che avvertiamo è sicuramente il risultato di una sofferenza che appartiene ai singoli protagonisti di questa pièce, ma è anche ciò che li fa stare insieme tragicamente. Ciò grazie a un’armonia recitativa davvero molto complessa.



L’impatto dei dialoghi, la scrittura ellittica, i luoghi immaginati dall’autore, l’ambiente della vicenda, la poltrona, in questo lavoro registico così esauriente, ironico e del dettaglio, ci restituiscono il senso del sottotesto, specie in quelle frasi che sembrano non poter avere sviluppo, quelle frasi morte nell’ipertrofia dei soggetti che ormai da troppo tempo vivono a scapito, violentemente, gli uni degli altri.



La prostituta che prende il posto della madre, è umiliata in maniera così grave...ma, a ben vedere, proprio per l’insegnamento distorto lasciato da quella madre. Max sottolinea più volte che è la madre ad aver insegnato quei “sani principi” ai suoi figli, lasciando intendere la perversità di questo occulto ragionamento: cattiva donna come tutte, ma brava madre. Così a quei figli è rimasta l’impossibilità di confrontarsi con una donna.



A questo proposito, c’è un ultimo personaggio da raccontare fin qui trascurato: il fratello di Max, Sam, che segretamente innamorato della cognata, lui no, non si è trasformato in un rabbioso, neppure all’arrivo del nipote (e della nipote!). Invece è portavoce triste, il cane zoppo che di solito i lupi si portano dietro per scaricare le frustrazioni della caccia, che cerca di ammansire gli altri con tutti i suoi messaggi di tregua. Ma non ci riesce, viene ucciso alla fine di questo massacro (carnage). Eppure è l’unico che svela la verità ad un certo punto, evidentemente mai accettata: Jessie si è fatta il migliore amico di Max, proprio sul posteriore della macchina che egli guida come chauffeur. È questo il motivo di tutta quella rabbia, operata perciò anche attraverso i figli!



In un allestimento che facesse seguito a una interpretazione sociologica forse un po’ più sofisticata, a “il ritorno a casa” sarebbe stato interessante trovare, e proprio per spiegare le stesse dinamiche maschiliste, misogine, invece che il padre e i tre fratelli di Teddy, sua madre e le sue sorelle. Perché come è qui evidente sono le donne che non permettono di cambiare. Donne che ancora corrispondono e tramandano quei “valori” autolesionistici, per il mantenimento (la conservazione) di una società, questa nostra, non esattamente paritaria come la si vorrebbe.



Info spettacolo: dal 14 al 26 gennaio 2014 al Teatro Palladium di Roma (durata 3 ore). Teatro di Roma in collaborazione con Fondazione RomaEuropa.


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