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La Maria Zanella. La linea nera

La Maria Zanella. La linea nera
di Veronica Turiello


L'acqua è l'elemento triste. Perché l'acqua piange con tutto il mondo; e, per quanto bambini, non possiamo fare a meno di sentircene commossi
A. de Lamartine
(18 ottobre 2011) Il corso del Po fra le alte canne è lento e monotono. Ha visto anime di ogni sorta guardarlo con orrore e un vago senso d'amore. L'appartenenza alla terra è sempre un misto di paura e di stramaledetto amore. Un fondale nero e tre lampioni. Accesi, poi spenti, uno alla volta. Sul freddo di un inverno che dura da una vita. Maria Zanella sente la musica di un'orchestrina lontana che esegue Piazzolla e sorride incantata. Sotto scorre il fiume.


A volte sembra che le luci rimangano in un'altra parte del cielo e questa vita, quella degli uomini, venga lasciata a guardia di una imperitura linea nera sotto il soffitto.



Un calmiere del dolore. Un segno dello strazio. Come se non fosse mai colmo il senso di nostalgia. Come se l'unico destino fosse un eterno rimpianto. Un eterno patire.



Lo guarda, col suo sguardo perso. In una pausa fra sconclusionati discorsi fatti a voce alta, Maria. Il segno dell'acqua è una linea nera indelebile che mangia ogni cosa, che ruba ogni certezza, distruggere ogni leggerezza. E' un ricordo. Di un lontano 1951. La pioggia non smette da giorni e all'improvviso i fianchi del Po si squassano. Un alluvione improvviso colpisce l'alto Polesine. E' lì che si ferma la mente di Maria Zanella, protagonista dell'omonimo monologo in scena al Piccolo Eliseo Patroni Griffi dall'11 al 23 ottobre. Del fatto storico, il meraviglioso testo di Sergio Pierattini, affidato alla regia emozionale di Maurizio Panici, non fa che un accenno. Il dolore, il senso di disperazione, di straniamento, di disagio mentale, di imperituro e mai sanato freddo si sente addosso, dappertutto.



In un sibilo quasi inudibile in una linea d'ombra che libera alla luce solo il cono luminoso di un lampadario. E' seduta su una sedia, col suo abito a pallini, quello buono, Maria. La Maria Zanella, che è  una strepitosa e commovente Maria Paiato. Si stropiccia le mani come chi non dorme mai e vuole afferrare il buio per piegarlo come un lenzuolo  e metterlo fuori all'aria.



Le parole si impastano al buio della scena, nuda, completamente spoglia. Le parole, qui, costruiscono ogni cosa. Sono il contenente per il contenuto: pianto per dolore, singhiozzi per tormento, silenzi per paura, tremiti per freddo. La malattia mentale e le sue immagini accompagnano questo fluire interrotto solo dal buio totale e la successiva accensione di un nuovo lampione.



La sedia scarna. La parola ha un peso così potente che a tratti sembra lì lì per schiacciarti il petto. Tutta la dolcezza e le fantasie rimaste intatte nell'infanzia bloccata dal trauma e rese attraverso la postura di maria, seduta con le ginocchia larghe, come le bambine che non hanno malizia.              Che si estraniano dai discorsi dei grandi perdendosi nel guscio di una lumaca. Che mantenersi in un altro mondo, anche se è pazzia, spesso è l'unico modo per non morire di dolore. 



Lontanissima da meccanici tecnicismi espressivi, Maria Paiato è tutta anima. Tutto cuore. Tutto dolore. Un dolore immobile, cristallizzato nei lunghi immobilismi dei tic della malattia o negli improvvisi cambi d'umore, di tono, di intensità della voce. I temi dell'abbandono, della diversità, della malattia. Del disagio. Avvertiti, sentiti addosso. Un freddo impossibile da cancellare. Un'insonnia impossibile da sconfiggere. 



Scaldarsi, addormentarsi, lontano dalla luce è impossibile. Non resta che fissare quella marcata eppure invisibile linea nera finché ingoia ogni cosa. Persino il pianto.


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