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Il Protocollo. La storia di tutti, senza parole. Roma Fringe Festival

Il Protocollo. La storia di tutti, senza parole. Roma Fringe Festival
di Veronica Turiello

Ignoro se la mia inesistenza appaga il tuo destino, se la tua colma il mio che ne trabocca, se l'innocenza è una colpa oppure si coglie sulla soglia dei tuoi lari.
Di me, di te tutto conosco, tutto ignoro

Eugenio Montale, Satura
(03 luglio 2013) Il nero esce dal buio in cui lo confinano le non-esistenze. Intravedi le ombre, hanno il volto abbassato su questa cosa che chiamiamo luce. Il venire alla luce lo chiamiamo vita. Una pratica consuetudinaria. È questo il Protocollo. In scena a Roma Fringe Festival.
Una storia complessa nella sua semplice essenza. Una storia narrata fra due parentesi-velo, il bianco della nascita e il nero della morte. La vita, parcellizzata in miniature di fermo immagine, diventa questa lunga parentesi di luce rubata allo spazio nero.


Si apre col candore niveo del primo vagito, questa storia che è tutte le storie. Nessuna parola. Un ininterrotto flusso afono di espressioni, gesti armonici o scatti improvvisi, movimenti cadenzati o liberi. L’identità della donna ripercorsa attraverso le fasi della vita, dalla culla alla morte silenziosa e solitaria. Il silenzio che diventa oggetto di scena, più pregnante e ingombrante di ogni cosa.



La scena è già un dire: un tavolo asettico e nero invita al confronto, ad una chiacchierata partecipata. Non riconoscersi è impossibile, non prendere a cuore i frammenti vissuti, esasperati nei gesti plastici e nel movimento degli occhi è impensabile. Quattro donne sedute di fronte al pubblico, alla stessa distanza l’una dall’altra. Vite singole in un flusso di vita comune eppure solitaria. Solo a tratti le identità si toccano, si cercano con gli occhi, si compenetrano. Ognuna vive i riti e le convenzioni della vita, le fasi, le esperienze, le emozioni, le sensazioni. Realizzate da suoni noti e gesti che parlano. Il succhiotto, la scoperta del mondo nel roteare delle pupille, il primo gioco, il primo regalo desiderato – una bambola che è già preludio di un figlio e ripercorre già la nascita, la propria e quella delle vite a cui daremo origine -. Le campanelle, confine sensoriale del tempo scandito, ristretto, amministrato dalle gabbie sociali – la scuola, la chiesa e i riti religiosi vissuti quasi come riti iniziatici, formalismi scomposti nei piccoli gesti di ribellione che chiamiamo carattere. Una mosca che vola e spezza la linea del silenzio.  Passaggi rituali e comunicazione interpersonale, modelli estetici a cui aderire quasi forzatamente, con le mani che quasi modellano il viso, la forma delle sopracciglia e i capelli, per riconoscersi nei mille volti dei cartelloni. Nelle vite da soap opera. Il sogno come filo rosso che lega ogni respiro.



Dalla bellezza dell’amore, il primo e indimenticabile, nelle cuffie e sulle note di Reality. È il tempo delle mele, degli occhi sognanti in nuvole di sospiri, della caparbia intenzione di costruirsi e costruire, al ritmo volitivo di Flashdance. Da questo ai primi dolori, all’abbandono, alla perdita, ogni volta più intensa, ogni volta più tagliente. La scatola dei ricordi è lo spazio della memoria. Che diventa culla dei sogni, delle aspettative, dei desideri, e di quella parte di noi che prometteva bellezza. In ogni angolo della vita.



Avvolte nel nastro stretto del rimpianto, le certezze, le illusioni, le lettere d’amore ormai impolverate. L’ingenuità senza dolore della fanciullezza – nella stoffa della bambola di pezza – che riposa sui ricordi come la parte di noi che s’è persa. Per sempre.



Malinconia e straniamento. Nell’approdo alla vita adulta. Lo studio – matto e disperatissimo – soffocato dai rumori di una metropoli cacofonica e aggressiva.  Stemperati dalle pause caffè-sigaretta, dalle notti di confusione e momentaneo oblio. La fatica di costruire il divenire condensata nell’iconico “ pezzo di carta “. Clic. Ci siete voi lì. Con la vostra laurea e i fiori rossi. Più grandi sono i sogni più grandi diventano le illusioni spezzate dalla realtà. E la scatola si allarga, ingoia tutto. Fuori dal percorso delle cose sognate la realtà è un colloquio di lavoro fallito e una notte a servir tavoli, fino al mattino.



Il Protocollo ha le sue regole per cui la Partica Sogno è già archiviata. L’immagine di rottura estrema  è il call center, rifugio obbligato, colonia penale di rinsavimento. Per voi che avete peccato di sognare. La ritualità globalizzante del lavoro meccanico si cuce strettamente ai riti di unione personali, dal sesso al velo – un altro velo – dell’abito da sposa. È impressionante questo percorso di soli 65 minuti in cui la bambina che ognuno di noi è stata, diventa donna, si realizza e si perde, si sposa e procrea, si innamora e perde l’amore. La scatola dei sogni immobile si contrappone alla mobilità della scatola per le pulizie. Ai riti di bellezza ripetuti e inutili, davanti all’immancabile televisione. Sottofondo costante, altro protocollo a cui aderire. Lo scorrere del tempo nella linea delle rughe, nell’addio dei figli, in volo verso altre vite, simili alle nostre. Solo traslate più in là, sulla linea del tempo.



Non resta niente di quella parte che di noi che sognava. La scatola delle cose passate ingoia tutto come se fosse un buco nero. E verso il nero richiama le esistenze. Il nero del velo della vecchiaia, la solitudine gelida della malattia. Che è più malessere che male. Fino al silenzio totale, al viso abbassato verso la morte. Che malgrado tutto perde la sua scommessa col pianto e lascia la scena col sorriso disegnato su un bicchiere bianco. Il protocollo non l’aveva previsto.



Questo testo- ideato e diretto da Igor Grcko – è un esperimento testuale di teatro visivo affidato alle bravissime attrici, francesca Renzi, Alessandra Coronica, Isabel Zanni ed Emanuela Ventura.



L’occhio diventa protagonista assoluto, l’immedesimazione, il vivere la gestualità, il pianto e il riso in modo empatico diventano necessari alla messa in scena. È un lavoro di messa al mondo, un parto di noi stesse, nelle quattro identità presentate, tutte diverse, tutte prese dal vortice di una vita di protocolli e pregiudizi sociali. Gabbie e aspettative. È un piccolo saggio morale senza filtro, che non giudica. Perché non ne ha bisogno. Il filo emotiva che ogni storia riesce a tessere col pubblico ha in sé le proprie conclusioni.



Inserito nel palinsesto del Roma Fringe Festival 2013 a Villa Mercede che non smette di accrescere la propria fama di luogo di bellezza e ricerca nel mondo poliedrico e suggestivo del Teatro Off.



Il Protocollo sarà ancora in scena il 5 luglio. Mentre gli spettacoli del Fringe Festival continueranno con un calendario suadente e variegato, fino al 14 luglio.


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